BUREAU OF PUBLIC SECRETS


 

 

DOPPIA RIFLESSIONE

Prefazione ad una Fenomenologia degli aspetti soggettivi
dell’attività pratico-critica


 

“Quando il pensiero ha trovato la sua espressione corretta (...), che è raggiunta da una prima riflessione,
allora avviene una seconda riflessione, che riguarda il rapporto tra la comunicazione ed il suo autore.”
(Kierkegaard, Post Scriptum alle “Briciole filosofiche”)

 

 

Ouverture
Il teorico come soggetto e come ruolo
Il dietrismo, o la colonizzazione della teoria
Come farsi degli amici ed influenzare la storia
Il deturnamento affettivo: alternativa alla sublimazione
Dormienti destatevi

 

 

Ouverture

“L’I.S. dovrà definirsi presto o tardi come terapeutica.”  (Internazionale Situazionista n. 8)

Ogni volta che un individuo riscopre la rivolta, ne ricorda le precedenti esperienze di essa, gli ritornano come improvvisi ricordi d’infanzia.

Parto di un fenomeno ben conosciuto: “che il soggetto precipiti nella follia, che pratichi la teoria o che partecipi ad una sommossa (...) i due poli della vita quotidiana — contatto con una realtà stretta e separata da un lato e contatto spettacolare con la totalità dall’altro — sono aboliti simultaneamente per fare posto all’unità della vita individuale” (Voyer).

Ma, la follia ha i suoi inconvenienti(1) e non si dispone tutti i giorni di una sommossa; ma la pratica della teoria è costantemente possibile. Perché, allora, la teoria è così poco praticata?

Certamente, qua e là c’è della gente male informata che non la conosce ancora. Ma che dire di quelli che la conoscono? Di quelli che hanno scoperto che nonostante le sue difficoltà innegabili, l’attività pratico-critica è così spesso comica, assorbente, significativa, esilarante, divertente — il che, dopo tutto, non è cosa corrente —; come accade che essi dimentichino, che arrivino a deviare impercettibilmente dal progetto rivoluzionario, che giungano ad un punto di rimozione assoluta dei momenti di realizzazione che vi avevano trovato?

Una persona non informata non mancherà di chiedersi perché ci impegniamo in primo luogo a questa strana attività. Ma quello deve sembrare strano a quelli che sanno perché, è perché ci impegnavamo così poco e così irregolarmente. I momenti d’entusiasmo e di conseguenza reali arrivano quasi esclusivamente per caso. Ci manca la coscienza del perché non abbiamo fatto ciò che non abbiamo fatto. Perché non ci rivoltiamo più?

Marx comprende l’attività pratico-critica come “attività umana sensibile”, ma non la esamina in quanto tale, in quanto attività soggettiva.

I situazionisti comprendevano l’aspetto soggettivo della pratica come un affare tattico. (“La noia è contro-rivoluzionaria.”) Ponevano la giusta questione.

È da molto tempo che esaminavamo quest’attività stessa. In che cosa consiste? Cosa fa a noi che la facciamo? Mentre i sociologi studiano l’uomo nel suo comportamento “normale” — cioè ridotto alla sopravvivenza, una somma di ruoli, di banalità — noi studieremo l’uomo quando agisce per eliminare tutto questo: l’Homo negans. “Agendo sulla natura esterna per modificarla, modifica allo stesso tempo la propria natura” (Il Capitale).

I lavoratori stanno diventando teorici e la pratica della teoria un fenomeno di massa. Perché intraprendere ora quest’indagine? Perché, compagni, non è stata intrapresa finora?


Il teorico come soggetto e come ruolo

HOLMES: “La mia mente rifiuta la stagnazione. Datemi dei problemi, un lavoro, datemi il crittogramma più oscuro o l’analisi più complessa, ed eccomi nell’atmosfera che mi conviene. Allora posso fare a meno di stimolanti artificiali. Ma odio la cupa routine dell’esistenza. È per questo che ho scelto questa professione particolare, o piuttosto, perché l’ho creata, poiché sono il solo al mondo della mia specie. (...) In un simile caso, non chiedo alcun riconoscimento. Il mio nome non figura in alcun giornale. Il lavoro in sé stesso, il piacere di trovare un campo per le mie capacità personali, è la mia più alta ricompensa. Ma lei stesso ha già una certa esperienza dei miei metodi di lavoro.”

WATSON: “Infatti. E mai nulla mi ha tanto colpito. A tal punto che li ho esposti in un piccolo opuscolo.”

—Arthur Conan Doyle, Il segno dei quattro

L’alienazione del proletario consiste in questo: il suo lavoro ha sostanza ma non libertà; i suoi svaghi hanno libertà ma non hanno sostanza. Ciò che fa di conseguente non gli appartiene, ciò che fa che gli appartenga è senza conseguenza; non vi è una posta nel suo gioco. (Da cui l’attrattiva per tutti i “giochi pericolosi” — giochi d’azzardo, alpinismo, legione straniera, ecc.)

È questa schizofrenia sociale, questo bisogno disperatamente sentito di afferrare la propria azione, di fare qualcosa che appartenga loro realmente, che induce masse di persone a dedicarsi a lavori artigianali o al vandalismo; e che ne induce altre ancora a tentare di sopprimere la scissione attaccando la separazione in modo unificato, dedicandosi ad un vandalismo coerente: il lavoro del negativo.

Quale sensazione procura quest’attività? Lettore, tu la conosci — o almeno, sei già arrivato a provarla. È come quando condividi un segreto o come quando sei riuscito a giocare un bel tiro. Ma questa sensazione è respinta in margine alla vita perché la sua immagine possa accaparrarsi la scena. E finisce per essere dimenticata.

Ebbene, non vogliamo dimenticare. Una rivoluzione è il migliore scherzo che si possa fare ad una società che, lei, è un così brutto scherzo.

Per condurre la mia indagine distinguo artificialmente alcuni aspetti inseparabili dall’attività rivoluzionaria. Per semplicità d’espressione utilizzo il termine “teorico” — colui che pratica la teoria — in attesa di analizzare un tipo d’attività le cui modalità sono per alcuni aspetti abbastanza diverse da quelle di una folla che insorge un bel giorno, senza avervi molto riflettuto la vigilia. Mentre alcuni fenomeni analizzati qui sono comuni a tutti i momenti dell’attività negatrice radicale, altri si trovano evidentemente superati nel momento di una sommossa di massa. Questa Prefazione riguarda soprattutto la situazione del rivoluzionario in una situazione non rivoluzionaria.

La pratica della teoria comporta delle soddisfazioni particolari, ma anche delle trappole particolari, che derivano dal suo sviluppo disuguale, dal suo rapporto disuguale con l’insieme del movimento rivoluzionario, e dal fatto che il teorico è un individuo represso come qualsiasi altra persona. Il movimento della storia è una forza alla quale è temibile legarsi: ci si ubriaca di chiarezza, ma ci si inebria altrettanto rapidamente di illusioni.

La nostra(2) Fenomenologia sarà dunque allo stesso tempo una Patologia.

* * *

Il flash negativo è l’attività critica sequenziale concentrata che provoca un contraccolpo orgastica più o meno continua dell’effetto di spettacolo. Nel flash negativo (“flash” compreso nel senso di droga: una febbre eccitante che è quasi impossibile far scendere), si produce una sorta di “effetto domino” dei blocchi ideologici; la distruzione di un’illusione conduce ad esaminare gli altri più da vicino; la messa in cantiere di un progetto pratico ne suggerisce altri che lo correggono, lo rafforzano o lo allargano; le idee succedono alle idee ad un ritmo così rapido che il teorico è sommerso, posseduto, come un medium che trasmette al movimento storico stesso il suo oracolo; la complessità del mondo diventa tangibile, cristallina; vede i punti della scelta storica. Mentre rompe con la passività abituale ed inizia ad muoversi storicamente alla velocità vertiginosa degli eventi, le sue gambe sono trascinate come lo sono le masse nel momento insurrezionale. (Un’insurrezione è un flash negativo pubblico.) Ma se le masse non sono preparate per l’esplosione che minaccia violentemente la vecchia realtà e la “salute mentale” che l’accompagna, hanno compagnia nella loro crisi e possono così vedere che non è puramente personale, ma che è generale. Il teorico radicale, invece, deve essere preparato alle crisi personali che la comprensione e il chiarimento della crisi generale della società possono scatenare in lui. Su terreni dove è ancora senza difese, il teorico riscopre di nuovo le alienazioni contro le quali sono state sviluppate difese parziali, religio-caratteriali. La forma mercantile riappare ad ogni nuova tappa; la teoria del valore è vista come una teoria che ha del valore, ed il teorico come il suo profeta. Un concetto rivoluzionario diventa la sua musa. Ne è sconvolto. È il contrario del militante poiché serve la sua dea con entusiasmo. La situazione è ambigua. La teoria può correggere i suoi eccessi mistificati oppure il teorico, nel suo entusiasmo, rischia di diventare completamente folle ed affondare in un narcisismo teorico.

Ci sono anche flashes negativi collettivi. L’incontro di progetti convergenti sviluppati parallelamente elimina le fossilizzazioni, le esitazioni, le rispettive impasses, pone gli sforzi di ciascuno in una prospettiva più ampia e più precisa. Un solo incontro decisivo può, in un dato momento, scatenare un vero fuoco d’artificio di attività sovversive per molti giorni, una persona o un testo agiendo come catalizzatore di una piccola cerchia di persone. Rapporti storici diventano rapporti personali. (“Quando uno è profondamente occupato è al di sopra di ogni imbarazzo.”) I gusti disparati della sopravvivenza sono relegati sullo sfondo; tutti scoprono un senso comune dello humour (giacché dove c’è contraddizione, il comico è sempre presente). Il baccanale è spesso molto contagioso, propagando a quelli che di solito non partecipano, il desiderio di andare al di là di un semplice godimento attraverso intermediari.

Ma ciò non dura. Senza contare gli innumerevoli ostacoli oggettivi che pesano su questo tipo di sforzo, possiamo notare che ciò che genera la reazione a catena è meno una “massa critica” che una massa di critiche, uno choc da sfide. Le scintille scaturiscono dall’attrito di due poli indipendenti l’uno contro l’altro. Quando i poli si toccano, le cariche si neutralizzano nelle congratulazioni reciproche, la contraddizione è posta su un piedistallo e dimenticata, ed il gruppo ristagna; tutto ciò che resta in comune è l’illusione di una partecipazione collettiva, e i ricordi del tempo in cui non era illusoria.

* * *

A differenza della pura pretesa rivoluzionaria, il ruolo rivoluzionario è un’illusione ben fondata. Non è una semplice stupidità che si può abilmente evitare con la sincerità o la modestia, è un prodotto oggettivo generato continuamente dall’attività rivoluzionaria; è l’ombra che accompagna la realizzazione radicale, la passibilità reazionaria, lo scatto interno o esterno del positivo.

Il positivo è l’inerzia del negativo. Così, vediamo un’azione negatrice incisiva degenerare in militantismo (imitazione del negativo, pratica della ripetizione) o un giudizio demistificato sulle proprie possibilità condurre ad un successo che riconduce ad una mistificazione sulle proprie capacità (megalomania rivoluzionaria). Lo spettacolo, scosso dal negativo, reagisce cercando un nuovo punto d’equilibrio, che assorba il negativo come momento del positivo. Il ruolo rivoluzionario è la forma che assume il ristabilimento di questo equilibrio nell’individuo. Il carattere del rivoluzionario si trova rafforzato obiettivamente dallo spettacolo della sua opposizione allo spettacolo. Togliendo il velo della falsa-coscienza (ideologia, effetto di spettacolo), l’individuo del negativo si mette in contraddizione aperta con l’organizzazione stessa dell’incoscienza (carattere, capitale) e con la sua difesa energica (armatura caratteriale, Stato). L’organizzazione dell’incoscienza si protegge come un pneumatico antiforo: utilizza precisamente l’attività del negativo per chiudere e rammendare i tagli. Come una classe dominante in una posizione difficile può accordare alcuni posti ministeriali a dei rivoluzionari, il carattere offre una “migliore situazione” nella quale il soggetto acquisisce un interesse psicologico al mantenimento dello status quo spettacolar-rivoluzionario. Per avere così ben colpito, l’insoddisfazione si trasforma in auto-soddisfazione. Quello che era uno sforzo di liberazione personale diventa un ornamento della “personalità”. La politica forma il carattere.

(Ma nessuna scusa per la falsificazione. Non ci sarà nulla più di volgare dei futuri “teorici” che deplorano — in un modo neo-dostoijevskiano pieno d’indulgenza per sé stessi — i ruoli-trappola che la loro difficile posizione di teorici mette sulla loro strada. Si tratta semplicemente di cogliere le basi oggettive che generano il ruolo o sostengono le pretese per beccare meglio il ruolo e respingere più rapidamente il simulatore.)

È a volte difficile aprirsi un varco tra l’uso del ruolo da parte del rivoluzionario per risolvere i suoi problemi individuali, e l’uso del ruolo da parte di un non-rivoluzionario per proteggersi dalla dialettica nella sua vita quotidiana. Si capisce facilmente che un lavoratore desideri lasciare una spazio il più grande possibile tra il suo lavoro ed i suoi sforzi per vivere. Ma l’imbarazzo del rivoluzionario traspare ogni volta che gli chiedono: “Di che ti occupi?” Proprio nella misura in cui non è un militante, non può appendere il suo “lavoro” nel guardaroba prima di dedicarsi al “piacere”. Qualcosa muore in lui ogni volta che tace la sua qualità di rivoluzionario. Dissimula una parte di sé stesso. È una menzogna, un’auto-mutilazione, un tradimento. Ma invece, se si presenta come “rivoluzionario”, emerge una serie di nuovi problemi, senza tenere conto delle grezze incomprensioni alle quali ciò dà luogo in uno straniero (che si assimila immediatamente ad un militante). Da cui la miseria particolare delle relazioni amorose nel milieu situazionista (oltre a tutte le miserie o quasi che gli individui di questo milieu condividono con non importa chi): tentativi patetici e maldestri per fare nascere l’amore dal cameratismo, o il cameratismo dall’amore; isolamento spettacolare come genere di personalità speciale e bizzarra (ex: il fenomeno groupie); effetto pigmalione (il rivoluzionario scopre che il suo partner è l’immagine stessa — e soltanto l’immagine — della sua pratica e che la sua lode automatica di tutti i suoi gesti è l’incarnazione della debolezza e dell’auto-deprezzamento che odia tanto); ecc. In realtà, nei loro sforzi per combinare sostanza e passione nelle loro relazioni, i rivoluzionari vivono in miniatura il conflitto tra la crisi del vecchio ordine ed i segni che annunciano il nuovo, segni che, per lungo tempo ancora, resteranno necessariamente quasi esclusivamente iscritti in negativo. Le vecchie forme marginali di gioco separato, isolato — l’arte, la bohème, l’amore romantico — sono sempre più escluse dalla pianificazione globale della vita, il che semplifica il problema creando nuove complicazioni ad un altro livello: il dialogo si trova confrontato al fatto che deve preoccuparsi di sopprimere le condizioni che ovunque sopprimono il dialogo. Il dialogo è rivoluzionario o non dura, e comincia a saperlo.


Il dietrismo, o la colonizzazione della teoria

“Scaccia il suo pensiero senza tenerne conto, semplicemente perché è suo. In ogni opera d’ingegneria riconosciamo i pensieri che abbiamo respinto; ci ritornano con una certa maestà alienata (...) Domani, uno straniero dirà con un buon senso magistrale ciò che precisamente non abbiamo cessato di pensare e di sentire, e saremo obbligati a ricevere con vergogna la nostra opinione dalla bocca di un altro.”  (Emerson, La fiducia in sé)

In alcune corse (ad esempio ciclisti), il corridore che è davanti taglia il vento e crea un vuoto che aspira; se si riesce ad avvicinarsi sufficientemente vicino a lui, si avanza senza sforzo. Il dietrista è una persona che intrattiene una relazione simile con la teoria rivoluzionaria o con i teorici: ha un bel “avanzare”, si trova sempre nella scia degli altri.

Il rapporto dietrista è possibile soltanto in un contesto di creatività, di contenuto qualitativo. (A tal riguardo, l’analogia lineare con una “corsa” rischia di essere ingannevole.) Così, il fenomeno è conosciuto dagli scrittori che tentano di sbarazzarsi dell’influenza irresistibile del loro maestro e di trovare la “loro voce”; si produce anche nei multipli cambiamenti di formazione dei gruppi musicali, dove ciascuno lascia il gruppo per formare il suo, i cui nuovi membri, a loro volta, alcuni anni più tardi formeranno i loro propri gruppi. Dunque, il dietrismo non esiste nell’ambiente gauchiste in cui il qualitativo è assente e dove il rapporto capo-seguace, invece di essere considerato un problema, è piuttosto ricercato o, se questo rapporto è vagamente sentito come un problema, è più facile per quelli che si trovano in basso di sfuggirvi. (Non c’è bisogno di molto rispetto di sé per avvertire una manipolazione palese, o di molta iniziativa per rifiutarla, né di molta immaginazione per bypassare un milieu dove la penuria d’intelligenza è artificialmente conservata.) Il dietrismo è la “malattia del progresso” del settore più avanzato del movimento rivoluzionario. Più la teoria è corretta obiettivamente, più è forte la sua influenza sul dietrista.

La coscienza della pratica umana è essa stessa un genere di produzione umana, alla quale una folla di persone partecipa in vari modi ed a vari gradi di coscienza. La teoria espressa è soltanto un momento di questo processo, un prodotto raffinato delle lotte pratiche, una coscienza temporaneamente cristallizzata in una forma che sarà nuovamente infranta e riportata allo stato di materia prima per essere pronta ad altre battaglie. È soltanto nel mondo invertito dello spettacolo rivoluzionario che questo momento visibile della teoria sembra essere la teoria stessa, e che il suo articolatore immediato sembra essere il suo creatore.

L’alienazione del dietrista a profitto del mito della rivoluzione (e questo è il risultato della sua attività cosciente) si esprime così: più si appropria, meno è autonomo; più partecipa parzialmente, meno comprende le sue capacità di partecipare totalmente. Il dietrista mantiene un rapporto alienato con i prodotti della sua attività, sia che si alieni lui stesso nell’atto di produzione (la sua attività non è appassionata ma imposta, non è la soddisfazione di un desiderio di rivolta ma un semplice mezzo per soddisfare altri desideri, ad esempio, quello di essere riconosciuto dai suoi simili), sia che si alieni lui stesso tenendosi fuori dall’atto di produzione (la sua partecipazione tende fortemente verso l’aspetto distributivo(3) del processo).

Fondamentalmente, la coerenza è meno lo sviluppo della teoria o della pratica di un individuo che lo sviluppo del loro rapporto reciproco. Così, possiamo constatare che il dietrista soffre di uno squilibrio théorico-pratico: si impadronisce della teoria in proporzioni che non hanno rapporto con l’uso che ne fa, o si impegna in una pratica che è stata sempre iniziata da altri. La sua pratica è quella dell’appropriazione che arriva sempre troppo tardi. È al riparo dai rischi. Non scopre, è informato che tali libri sono essenziali, che tali rivolte sono state le più radicali, che tali persone sono degli ideologi, che si deve rompere per tali buone ragioni... Dovunque vada, qualcuno vi è già passato di lì. La teoria generale è il suo spettacolo personale. Ma è così tanto schiavo della teoria che più lo rende impotente, più egli avverte la necessità di proseguirla, sperando sempre che questa intuizione magica che gli permetterà finalmente di “comprendere” ciò che deve fare e come può farlo, si produrrà al termine del percorso. Ha tanto girato in questo circolo vizioso che se cade su un terreno dove nessuno lo ha preceduto, suppone che sia perché non era “abbastanza importante” — come se non ci fossero milioni di progetti sovversivi che valgano la pena, e di cui la maggior parte non è stata ancora neppure concepita. L’irradiazione della sovversione passata genera un’ortodossia rigorosa de facto a proposito di ciò che è la “pratica coerente”.

Il dietrismo è un problema organizzativo permanente della nostra epoca. Una persona localmente autonoma può benissimo essere dietrista in rapporto a tutto il movimento o in rapporto ai suoi teorici più chiaroveggenti. (In ultima analisi, il proletariato è collettivamente diterista in quanto lotta necessariamente per l’autogestione della sua teoria.) Generalmente parlando, la lettura pratica di un testo radicale è caratterizzata da un atteggiamento critico apparentemente quasi spietato verso ciò che può essere sfruttato di questo testo, ma che non presta alcuna attenzione al merito intrinseco di ciò che non può esserlo. Finché la sensazione seguente: “È formidabile! Ci sono molte cose là dentro che non conosco! Bisogna che mi metta a leggerlo tutto!”,” annuncia la colonizzazione nascente della teoria.

Ogni rivoluzionario deve fare i suoi errori, ma non serve a niente ripetere quelli che sono già stati fatti e superati da altri. Il problema è di scoprire continuamente un equilibrio tra l’appropriazione di certezze e l’esplorazione di nuovi terreni. Mi sembra che la concezione sia l’aspetto da cui meno può essere dispensato il dietrista che tenta di uscire dal suo circolo vizioso. Una volta che un progetto è scelto ed iniziato, consultare un testo o una persona è meno mistificante perché il punto di contatto è più stretto e più preciso.

È importante distinguere il dietrista, che si trova in una posizione difficile a causa del suo rapporto con gli altri rivoluzionari, dalla massa di parassiti-cortigiani che trovano semplicemente appassionante associarsi ai rivoluzionari, o almeno farlo sapere nel loro ambiente. Il parassita-cortigiano si immagina più avanzato delle masse perché la sua frequentazione più o meno accidentale di rivoluzionari gli permette di sapere da quale lato gira il vento. Vorrebbe apprezzare gli atti radicali degli altri esteticamente, come degli spettacoli migliori che quelli di cui dispone di solito. Dunque, anche come spettatore della rivoluzione, non vede tutto il processo delle contraddizioni e delle irregolarità della rivoluzione, ma soltanto i suoi ultimi risultati visibili. In questo senso, è lo spettatore non della rivoluzione, ma del suo recupero. Può ben vedere migliaia di persone nelle vie, ma non può ascoltare gli argomenti di milioni di conversazioni; se la rivoluzione non evolve in modo chiaro, lineare e cumulativo, proclama allora che non esiste più(4) (ed i peggiori tra i parassiti-cortigiani a tal riguardo sono i rivoluzionari pensionati). Il parassita-cortigiano non cerca di trasformare il mondo ma di arrivare a una riconciliazione con quelli che vogliono trasformarlo. Se i suoi comodi sono disturbati, si lagna del movimento rivoluzionario, esattamente come ci si lagnerebbe di una merce difettosa o di un politico che lo avrebbe denunciato, e crede di dare prova d’autonomia minacciando di ritirare il suo prezioso voto di fiducia. Il dietrista serio non esiterà a separarsi dai suoi migliori camerati se non vede un altro mezzo per sviluppare la sua autonomia; finché il parassita-cortigiano abbandona senza pensarci due volte tutte le sue pretese rivoluzionarie se si trova in un ambiente in cui queste non sono più di moda.


Come farsi degli amici ed influenzare la storia

“ ‘Come?’ voi domandate. È un capitolo abbastanza vasto, lo ammetto. E cercando di raccogliere materiali per riempirlo, dobbiamo prendere a prestito dei sentieri sinuosi ed incerti, giacché ciò dipende per molti di voi, dal vostro pubblico, dal vostro soggetto, dal vostro materiale, dalle vostre occasioni, ecc. Speriamo tuttavia che le proposte sperimentali discusse ed illustrate più in là vi siano utili e preziose.”  (Dale Carnegie, Come sviluppare la fiducia in sé ed influenzare la gente con il discorso)

L’eroe di un poema del Rinascimento scopre (sulla luna, credo) la dimora di tutte le cose perse nella storia, tutte le cose che sono state smarrite e mai trovate. Immaginate di andare a vedere, raccolti su una pila enorme, tutti i progetti situazionisti persi! È tuttavia probabile che per trovarli dovremmo proprio andare sulla luna, poiché, come osserva Swift: “i piagnucolii appassionati e le battute di spirito penose sono trasportate delicatamente, grazie alla loro leggerezza estrema (...) e (...) le ampollosità e le buffonerie che sono per natura sublimi e di scarso peso, salgono più in alto di tutto il resto.”

Quante volte abbiamo visto un progetto promettente, cominciato con entusiasmo, divenire noioso ed essere allora abbandonato? Quante volta abbiamo visto un progetto espandersi (ed un buon progetto ha quasi sempre la tendenza ad espandersi) al punto di dominare il suo iniziatore, al punto che quest’ultimo si trova completamente sprofondato nell’immensità del compito che si è imposto e finisce per rifiutare la totalità della sua esperienza, come un militante del P.C., completamente svuotato dopo gli anni trenta. Quanti non torneranno mai? Ahimè!

Certamente, è vero che nella maggior parte di questi casi non abbiamo probabilmente perso molto: come un teorico potrebbe condurre a termine i compiti organizzativi delle masse se non riesce ad organizzare il proprio lavoro in corso? Si crede realmente che si possa criticare l’economia se non si è realizzata l’economia della propria critica?

Occorre stabilire la morfologia del progetto unico. Ad esempio: concezione — inizio — espansione — riorientamento — sfrondamento — attacco finale — realizzazione — ripercussioni; o forse anche: preliminari — orgasmo — rilassamento. Ed occorre certamente coltivare l’arte dell’interdipendenza dei progetti. Nonostante gli omaggi che sono di tanto in tanto resi a parole a Fourier, quante volte vediamo un rivoluzionario variare coscientemente la sua attività, scegliere due o tre tipi di progetti diversi per poter passare dall’uno all’altro secondo il suo umore? O scegliere un progetto per il suo valore educativo in modo tale che, come alcuni musicisti, scopre nello stesso tempo quanto comunica? O anche, ricercare accuratamente il rapporto ottimale di collaborazione/rivalità con i suoi compagni?

Non possiamo intervenire fra i lavoratori se non sappiamo come intervenire nel nostro lavoro. Gli agitatori devono essere agitati. “Preparate dei nuovi successi, per piccoli che siano, ma quotidiani.”

(Sì, noi possiamo prevedere che un competentismo sorgerà dalla divulgazione delle tecniche critiche (per esempio, si potrebbe veder diffondersi la capacità di redigere un volantino, grossolanamente “corretto”, in non importa quale occasione). Ma questa proliferazione distruggerà alla base la monopolizzazione di un’immagine situazionista per mezzo di una minoranza trascurabile di individui, cosa che dialetticamente provocherà il superamento qualitativo di questo cattivo uso.)

* * *

“È difficile decidere se l’irresolutezza rende l’uomo più infelice o disprezzabile; e se è sempre più sconveniente prendere una decisione sbagliata, o non prenderne nessuna.”  (La Bruyère, I caratteri)

L’alfa e l’omega della tattica rivoluzionaria, è la decisione. La decisione è la grande chiarificatrice: è lei che permette tutte le messe a punto. Come un raggio di sole che finisce per bucare un cielo coperto, la proposta concreta scioglie la nebbia della speculazione. Il metodo più semplice per l’individuazione delle cazzate è di osservare se le decisioni di un individuo lo spingono ad agire e se la sua azione lo spinge a prendere decisioni: “Ah, comprendo, pensi x: ciò che significa che farai y?” Panico! “Oh... no... oh, volevo soltanto dire che...”

Esaminiamo l’entusiasmo della conversione ad una religione o ad una mania: è il breve momento in cui si fa una scelta cosciente fra vari modi di sottomissione al dato. Si fa il grande passo e si decide di servire Cristo, di aderire ad un club o ad un gruppo politico. Tuttavia l’eccitazione è attribuita al contenuto della scelta.

La società mercantile contiene questa contraddizione: deve suscitare questi entusiasmi appassionati, allo stesso tempo per garantire il funzionamento regolare del mercato ideologico, e garantire la sopravvivenza psicologica dei suoi consumatori; ma gioca con il fuoco agendo in questo modo: una decisione può comportarne un’altra. La maggior parte dei rivoluzionari conseguenti possono risalire il corso della loro evoluzione fino ad un momento decisivo in cui si sono decisi — o, generalmente, sono caduti — riguardo un atto secondario ma concreto. Abbastanza spesso, esitavano, dubitavano di sé stessi, pensavano che ciò che facevano era forse da stupidi, ed in ogni caso poco importante. Ma retrospettivamente, ci si può spesso accorgere che quella conversazione, lettera, opuscolo, o non importa cosa, segnava un punto di partenza — dopo di ciò, niente fu più esattamente uguale. In realtà, l’imbarazzo e la mancanza di abilità sono praticamente il segnale che un individuo sta perdendo la sua verginità rivoluzionaria. Nella sovversione, si può partire da non importa dove. Ma il potere soggettivo dell’atto è proporzionale al grado di sovversione non soltanto di una situazione, ma anche della persona stessa come parte di questa situazione. Una lunga esperienza ha provato che la cosa più appassionante, e spesso anche più essenziale, è cominciare a criticare il ramo sul quale si è seduti. La pratica della teoria comincia da sé stessi.

* * *

“In caso di dubbio far entrare un uomo, revolver in mano.”  (Raymond Chandler)

La decisione è intervento, perturbazione, delimitazione. Ha un carattere arbitrario, aristocratico, dominatore. È la mediazione necessaria, l’argomento che si impone imponendosi a sé stesso. La decisione è la limitazione aggressiva: un atto è reso possibile dall’eliminazione di tutti gli altri atti possibili. Decidere è far intervenire un elemento limitativo arbitrario. (Le parole “decisione” e “concisione” vengono tutte e due dal latino: tagliare, recidere.)

L’elemento limitativo può anche essere accidentale. Basta semplicemente che la parte del caso sia calcolata. Le esperienze dei surrealisti erano generalmente poste sotto il segno di un abbandono dichiarato all’irrazionale ed all’imprevedibile — e questo equivale ad ammirare la sua impotenza. L’azione del caso è di per sé naturalmente conservatrice e tende a riportare tutto all’alternanza di un numero limitato di varianti ed all’abitudine. Il caso non è evocato qui per sé stesso, ma in quanto agente di contro-condizionamento. L’impiego sistematico del caso è un “ragionato disordine” del comportamento, secondo il principio che il decondizionamento non segue un strada diversa dal condizionamento stesso. In generale, un condizionamento dominato rivela la faccia nascosta del condizionamento dominante.

Viviamo dentro una nebbia così spessa che la distinguiamo appena — come pesci che provassero a comprendere “l’acqua” —; introduciamo una routine in più, una routine sufficientemente arbitraria perché possiamo distinguerla e conseguentemente modificarla come un fumatore che per smettere di fumare decide di sostituire all’inizio il tabacco con le caramelle. Avendo scoperto un feticcio, lo voltiamo contro sé stesso. Bruciare o deturnare le merci non avrebbe alcun senso per individui che non ne fossero dominati. Ma poiché siamo realmente stregati dalla merce spettacolo, possiamo trasformare l’incanto in contro-incanto, il feticcio in talismano. L’anti-estetica anti-manipolatrice del deturnamento non ha un’altra base: meno un’immagine è magica, meno possiede autorità per manipolare l’osservatore (nel caso-limite, la comunicazione trae esclusivamente il suo potere dalla sua verità); più un’immagine è magica, più l’autorità già esistente è utilizzata per denunciare le condizioni che potevano rendere possibile tale manipolazione. Non ci resta altro da aggiungere se non che il deturnamento non è fatto per demistificare soltanto gli altri.

* * *

“Niente chiarisce meglio un caso quanto l’esporlo a qualcun altro.”  (Sherlock Holmes)

“La cosa più facile è giudicare ciò che ha contenuto e solidità; già più difficile è afferrarli; ma più difficile ancora è riunirli entrambi e farne la somma”, come diceva Georg Hegel, qualche tempo fa, in un’altra prefazione ad un’altra Fenomenologia. È ben noto che il semplice fatto di buttare giù una questione sulla carta e provarvi a rispondere, può sovente aiutare a sbrogliare una matassa di confusioni. (Ad esempio: “Quali sono gli ostacoli che incontro attualmente in questo progetto?” “Qual è la mia posizione rispetto a quella teoria? o rispetto a quella persona?” “Qual è il ruolo di questa o quell’ideologia nella società presa nel suo insieme?” “Quali sono le scelte che si offrono ora?” Il segreto risiede in parte nella chiarificazione intrinseca che deriva dalla concentrazione su una questione precisa(5), ed in parte nella demistificazione soggettiva che proviene dall’oggettivazione del problema: “esprimendo” (oggettivando) i dati, si effettua un “distanziamento” che permette meglio di venire alle prese con il problema (ammettendo che si tratti di qualcosa con cui si possa venire alle prese). Questo processo di oggettivazione è l’elemento essenziale dell’efficacia soggettiva reale di tutte le religioni, terapie ed altri programmi di “perfezionamento di sé” (come, ad esempio, la confessione ad un sacerdote o ad uno psicoanalista).

La pratica della teoria si preoccupa meno delle vittorie — le vittorie si prendono cura da sé — che dei problemi. Si tratta meno di trovare delle soluzioni che di sollevare dei problemi validi e di porli correttamente. Essa ricerca legami, incroci, scelte che “facciano la differenza”. Lo scopo della sovversione non è di confondere le cose ma di chiarirle — ed è precisamente ciò che fa piombare lo spettacolo dominante in una tale confusione. Se la sovversione ci sembra estranea lo è soltanto perché questo mondo è realmente estraneo a noi. Al contrario della pubblicità, l’ “arte che dissimula l’arte”, il deturnamento è l’arte che rivela la sua arte, che spiega come è giunta lì e perché non può restarvi.

Ponendo le vere questioni, forziamo le polarizzazioni più radicali, e inseriamo il dialogo ad un livello più elevato. È ciò che fa la nostra “influenza sproporzionata” che rende i nostri nemici pazzi furiosi. La nostra strategia è una sorta di “disfattismo rivoluzionario” — incitiamo al rigore ed alla pubblicità, anche se si applicano in primo luogo contro di noi. Il nostro metodo consiste nell’esporre i nostri metodi; la nostra forza viene dal fatto che sappiamo come far contare i nostri errori.

Se il teorico possiede qualche influenza, la esercita precisamente a provocare il deperimento di questo stato di cose. In questo senso, deturna sé stesso, deturna la sua posizione de facto. Democratizza tutto ciò che lo separa realmente dagli altri proletari (metodi, conoscenze specializzate) e demistifica le separazioni apparenti (le sue realizzazioni sono la prova non delle sue capacità stupefacenti, ma delle capacità stupefacenti del movimento rivoluzionario della sua epoca). Gli piacerebbe che le sue teorie si impadronissero delle masse, che facessero corpo con la teoria propria delle masse. Ma, ancora più importante, cerca di fare in modo che anche la sconfitta delle sue teorie contribuisca alla progressione del movimento che le ha provate e trovate insufficienti. Anche se la sua teoria della pratica sociale fallisce, desidera che la maniera in cui pratica socialmente la teoria sia a sua volta esemplare in sé stessa, ed istruttiva per il modo in cui espone al grande giorno l’avanzamento di questa teoria.

Va bene superare, ma è ancora meglio incitare al prorpio superamento!

Essendo la pratica della teoria la pratica della chiarezza, qualsiasi individuo che si dica rivoluzionario dovrebbe essere capace di definire in che cosa consista la sua attività: ciò che ha fatto, ciò che sta facendo, ciò che si propone di fare. Questa è una base minima assoluta, senza la quale qualsiasi discussione sulla teoria, la tattica, ecc., è soltanto uno sproloquio inutile. Dirsi rivoluzionario per meno di questo è un insulto — non si dovrebbe mai dover indovinare se qualcuno sta dicendo cazzate, quali siano le possibilità che compia ciò che ha vagamente promesso di fare.

La teoria è la “vera confessione” che il proletariato fa a sé stesso in modo permanente, l’incantesimo che esorcizza i falsi problemi per porre quelli veri. Soltanto, il proletariato può “esprimere sé stesso” soltanto nella lotta per i mezzi d’espressione. Quale che sia la diversità soggettiva di milioni di miserie distinte e contradittorie, la soluzione è unitaria ed oggettiva perché la diversità della miseria è mantenuta con mezzi unitari ed oggettivi. Per il proletariato, “fare la somma” delle sue condizioni è inseparabile dal regolare i suoi conti con tutto ciò che, e tutti coloro che, le mantengono.


Il deturnamento affettivo: alternativa alla sublimazione

“Ed ho giocato dei begli scherzi alla follia.”  (Rimbaud, Una stagione all’inferno)

Il principale difetto di tutte le psicanalisi — anche quella di Reich — è di considerare la nevrosi, o il carattere, come un fenomeno separato, e dunque ammettere implicitamente (anche come ideale inaccessibile) la possibilità di un “individuo sano” all’interno della società attuale. Ma attaccare il carattere nell’isolamento è un tentativo destinato al fallimento, perché il carattere non funziona nell’isolamento. Per la maggior parte, se vengono dissolte, le formazioni caratteriali non fanno che ricostituirsi in una forma leggermente diversa; la sola alternativa è la pazzia o la morte. Il carattere è la miserabile difesa del mondo contro la sua miseria. L’esigenza di dissolvere le difese caratteriali è l’esigenza di dissolvere le condizioni contro le quali abbiamo bisogno di difese. Non ci sono psicanalisi rivoluzionarie, c’è soltanto un uso rivoluzionario della psicanalisi.

Generalmente si ammette da molto tempo che l’attività politica è spesso soltanto una povera compensazione al fallimento personale. Ma è anche vero che la nostra attività “personale” nell’insieme è soltanto una povera compensazione al fallimento rivoluzionario. Una rimozione rafforza una repressione. La fissazione caratterologica tende a riprodursi sotto forma di fissazione ideologica, e viceversa. Un blocco personale rafforza un blocco teorico. L’ideologia è una difesa contro la soggettività, ed il carattere una difesa contro la pratica della teoria.

Una persona che tenta di criticare qualcuno o qualcosa che prima rispettava, ad esempio, avvertirà spesso le resistenze edipiche classiche, come se fosse sul punto di uccidere suo padre; dubbi su di sé, senso di colpa, esitazioni, finendo per sgonfiarsi all’ultimo momento. Osservate quanto è frequente che una persona che ha fatto una critica perfettamente giusta, si senta costretta ad aggiungere delle scuse: “Sono spiacente, l’ho fatto perché ne ero costretto; ora proverò a rimediare a questo apportando un contributo positivo.”

deturnamento affettivo: attività critica doppiamente-riflessa soggettivamente, cioè interazione cosciente tra l’attività critica ed il comportamento affettivo; orientamento di un sentimento, di una passione, ecc., verso il suo oggetto appropriato, verso la sua espressione realizzabile ottimale.

La nozione di deturnamento affettivo è indissolubilmente legata al riconoscimento degli effetti soggettivi del lavoro del negativo, ed all’affermazione di un comportamento ludico-distruttivo, cosa che la oppone in ogni punto alle posizioni classiche della psicanalisi o del misticismo.

Al livello più semplice, il comportamento affettivo e l’attività critica possono essere opposti uno all’altro, l’uno manipolato in rinforzo all’altro, senza che ci sia nessuna relazione particolare, diretta, tra loro (o, almeno, non una relazione cosciente). In ragione dell’interconnessione delle rimozioni e delle repressioni, quando il soggetto rompe una costrizione, una fissazione o un feticcio, i due poli della mistificazione politica — empirismo ed utopismo — vengono indeboliti simultaneamente per fare posto alla padronanza pratica degli eventi. L’effetto di spettacolo è rotto, dissolvendo l’apparenza d’ineluttabile impotenza o, il che è lo stesso, la nebbia dei molteplici progetti “possibili” che non saranno mai realizzati.

Reich notava che quando la sua analisi raggiungeva un punto sensibile, il paziente poteva far risalire alla superficie un abbondante materiale finora respinto — come trappola, come distrazione superficiale, come un’ “offerta di corruzione” dell’analista. Ho scoperto che si può sistemare la propria “auto-analisi” in un modo tale da gratificarsi di quest’ “offerta”, nelle forme di una energia e di una lucidità storica temporaneamente accresciute. Il carattere prevarrà; ma si può sottoporlo ad un ricatto, fargliela pagare mettendolo al supplizio.

Per contro, alcuni brevi interventi sovversivi possono essere intrapresi in modo un po’ arbitrario o volontaristico, con la semplice intenzione di evadere del solco in cui ci si è avviati.

In modo più diretto, e dunque più complesso, il contenuto di un affetto può essere collegato al contenuto dell’attività critica, la loro “interazione” si trasforma allora da ostacolo inconsciente in alleanza cosciente.

Il deturnamento affettivo non pretende di realizzare le passioni, né di distruggere definitivamente le frustrazioni. Mentre la sublimazione sostituisce una realizzazione su un piano in cambio di una non-realizzazione su un altro — sostituzione caratterizzata dalla rimozione del desiderio originale — il deturnamento affettivo proclama apertamente che alla sua origine vi è il desiderio frustrato. Benché il suo scopo sia di restituire colpo su colpo ciò che causa la frustrazione, è d’altra parte distinto da ogni sindrome di vendetta (fissazione sull’oggetto odiato che elimina anche il desiderio originale) per il fatto che il soggetto domina: l’oggetto particolare dell’aggressione (se ne ce n’è uno) è considerato come un puro mezzo.

Quest’amore perduto, questo sogno che si conclude troppo presto — tutte le occasioni mancate sono altrettanti fatti che richiedono di essere storicamente corretti. Per riprendere una definizione che è stata applicata al cubismo poetico, il deturnamento affettivo è una “dissociazione ed una nuova combinazione di elementi, cosciente e deliberata”, la giustapposizione di un affetto e di un progetto rivoluzionario andando fino al punto di superamento di uno o dei due elementi iniziali. Il superamento può essere una semplice negazione — un esorcismo degli aspetti disfattisti dell’affetto o del progetto — o può essere una questione più positiva d’arricchimento reciproco. È soltanto attraverso una perversione spettacolare che il desiderio può essere visto come una cosa che semplicemente “arrivi” a qualcuno, che sia la presentazione unilaterale di un oggetto fisso ad una persona, che non deve che aspettare di “averne” il desiderio. L’espressione “concepire un desiderio” contiene l’idea che l’individuo partecipi allo sviluppo dei suoi desideri. Ogni possibilità realizzata esige di essere realizzata ancora di più. Donando una compagnia storica al vecchio desiderio, il deturnamento affettivo ne genera un nuovo.

Nulla è più prevedibile del recupero delle nostre tecniche, sotto forma di sessioni di incontro, ad esempio, o di happening, dedicate alla terapia “anti-caratteriale” e poste in una “prospettiva radicale”. (Sarebbe una forma più pura e meno diffusa dell’ideologia che si cerca attualmente nei tentativi di “terapia radicale” o di “cultura alternativa”, ideologia che spiega la popolarità enorme di Reich i cui lavori vengono più o meno coscientemente considerati come l’anello mancante nella ricerca di un riformismo psico-sociale realizzabile.) Basta dire che non è cambiando noi stessi che cambieremo il mondo — illusione che trova la sua verità nell’impresa stalinista della “costruzione della società socialista” mediante la costruzione dell’ “uomo socialista” (secondo il modello di Procuste). Colui che dichiari che un migliore funzionamento del suo essere è una vittoria rivoluzionaria non procura che della pubblicità per il sistema. Il deturnamento affettivo rompe con la nozione di cura permanente. O la rimozione riappare — come sfruttamento o come sintomo modificati — o non è mai scomparsa: chi pretende una liberazione fondamentale all’interno della società mercantile proclama la sua fondamentale compatibilità con la reificazione. Illusione della permanenza o permanenza dell’illusione.

Tutte le tecniche sono permesse, e non soltanto la psicanalisi: occorre soltanto che partano da una comprensione demistificata della totalità e che contengano la loro critica. Il deturnamento affettivo è una battaglia continua e disincantata nelle condizioni di doppio potere permanente nell’individuo.


Dormienti destatevi

Le forze che vogliono sopprimerci devono inizialmente comprenderci — e così facendo crollano. L’incoscienza stessa dello spettacolo lo pone già fino ad un certo punto a nostra disposizione: come se bruscamente avessimo le città per noi soli, come un bambino che corre fra le rovine calme di una tela di De Chirico. Quando deturnate un film, una pubblicità, un edificio, una stazione di metropolitana, demistificate la loro apparente inviolabilità; per un momento li dominate; non sono che dei semplici oggetti, della tecnologia. Ma è proprio vero? Non avete l’impressione di sentirvi un po’ come a casa fra loro?

Mettere davanti l’immagine della lotta di classe che ci presenta come separati dallo spettacolo, cede di fronte al nemico senza che noi vi ci siamo misurati, perché questa immagine ci separa dalla nostra essenza. Lo spettacolo non è soltanto l’immagine della nostra alienazione, è anche la forma alienata delle nostre aspirazioni reali. Da cui la sua influenza su di noi. Le immaginazioni compensative traggono il loro potere delle nostre immaginazioni reali. Di conseguenza, nessun puritanesimo verso lo spettacolo. Non è un “semplice” feticcio; è anche un feticcio reale, il che vuol dire che è realmente magico, è realmente una “fabbrica di sogni”, espropria realmente l’avventura umana. La passione di Maldoror esprime perfettamente l’atteggiamento ambivalente da assumere verso lo spettacolo: abbracciarlo teneramente e francamente e durante questo tempo, dopo una carezza innamorata e delicata, strappargli il cuore.

Sperimentiamo ancora nell’oscurità. L’arma più potente che la società possiede è la sua capacità a di impedirci di scoprire le armi che noi possediamo già — le loro istruzioni per l’uso. Dobbiamo praticare un’ “analisi delle resistenze” sulla società stessa, interpretando soprattutto non il suo contenuto, ma le sue resistenze “all’interpretazione”. Ogni azione sovversiva è sperimentale, come il gesticolare di un bambino a moscacieca. È facendo la storia che si impara a comprenderla; è giocando contro il sistema che si scoprono le proprie debolezze, là dove reagisce. In ultima analisi, è questo che è realmente questione nella “deriva”: siamo sicuri che sia una coincidenza che la critica moderna dell’urbanismo e dello spettacolo sia nata dalle ricerche “psicogeografiche” degli anni cinquanta? Si impara più precisamente come il sistema opera osservando come opera sui suoi più precisi nemici.

Il movimento rivoluzionario è un laboratorio che provvede ai suoi materiali. Tutte le alienazioni vi riappaiono in una forma concentrata. I suoi fallimenti sono altrettanti filoni che celano i minerali più preziosi. Il suo principale compito è sempre quello di esporre la sua miseria, che sarà continuamente presente, sia nella forma di semplici ricadute nella miseria dominante del vecchio mondo che combatte, sia in quella delle nuove miserie create dai suoi stessi successi stessi. Questo sarà sempre il “presupposto di ogni critica”. Quando il dialogo si sarà armato, potremo tentare le nostre possibilità sul terreno del positivo. Fino a quel momento, il successo di un gruppo rivoluzionario è triviale o pericoloso. Seguendo in ciò la produzione mercantile, dobbiamo apprendere a forgiare organizzazioni di cui sia prevista “l’obsolescenza”. La rivoluzione perde tutte le sue battaglie, eccetto l’ultima. Il nostro scopo deve essere di fallire chiaramente, ogni volta, a molte e molte riprese. Tutto ciò che è frammentario ha il suo posto di riposo, il suo posto nello spettacolo. Ma la critica che vuole finirla con il Grande Sonno non deve poter “trovare da nessuna parte il riposo”.

Siate crudeli con il vostro passato e con coloro che vorrebbero trattenervici.

KEN KNABB
Maggio 1974

 


NOTE

1. L’individuo folle scopre questa “unità della vita individuale” al prezzo del non-intervento. Si pone lui stesso fuori dalla storia, al di là di ogni possibilità di collaborazione. Occorre del metodo nella nostra pazzia.

2. nostra: La “Fenomenologia” non è un libro che farò apparire. Il suo sviluppo è uno dei compiti proletari globali del decennio prossimo. Per il momento, non siamo per così dire giunti che al punto di provare a descriverne l’insieme dei contenuti. I prossimi episodi (studi in profondità, casi di studio, altre prefazioni, critiche di questa qui presente) saranno fatte da... chi?

3. “Ma, prima di essere distribuzione dei prodotti, è distribuzione: 1) strumenti di produzione, e 2) (e questa è un’altra determinazione dello stesso rapporto) distribuzione dei membri della società tra i vari tipi di produzione (subordinazione degli individui a rapporti di produzione determinati). La distribuzione dei prodotti è manifestamente soltanto il risultato di questa distribuzione, che è inclusa nel processo di produzione stesso e determina la struttura della produzione.” (Marx, Introduzione alla critica dell’economia politica.)

4. “E’ ridicolo, in effetti! E che la storia sia ricca di cose così ridicole! Si ripetono in tutti i periodi critici. Non vi è nulla di stupefacente! Si tratta del passato, si vede tutto con un occhio favorevole, si riconosce la necessità dei cambiamenti e delle rivoluzioni che hanno avuto luogo; tuttavia, ci si oppone con tutti i mezzi alla loro applicazione alla situazione presente. Per miopia e pigrizia, si trasforma il presente in eccezione alla norma.” (Feuerbach, Principi della filosofia del futuro.)

5. “La discussione di queste prospettive conduce a porre la questione: In quale misura l’I.S. è un movimento politico? (...) Il dibattito raggiunge una certa confusione. Debord propone, per individuare chiaramente l’opinione della Conferenza, che ciascuno risponda per iscritto ad un questionario che chiede se si ritenga che ci siano delle ‘forze nella società sulle quali l’I.S. può appoggiarsi? Quali forze? In quali condizioni?’ ” (La Quarta Conferenza dell’I.S. a Londra (settembre 1960), in I.S. n. 5.)


Versione italiana di Double-Reflection, traduzione dall’inglese di Omar Wisyam.

No copyright.

Altri testi in Italiano